Exodology dell’artista in residenza Leone Solia a cura di Chiara Modìca Donà dalle Rose | Allestimento e cocuratela Marta Von Cranach, Yari Montemagno, Carlo Donà dalle Rose, Giovanni D’Amelio e Humberto Lima Cardoso


Exodologia è l’associazione di due parole, “esodo” e “logia”, con cui Leone Solia ed io abbiamo soprannominato il suo viaggio dentro la storia della Fondazione Donà dalle Rose, partendo da questa sua prima lunga tappa in residenza a Venezia a Palazzo Donà dalle Rose che preannuncia il nostro imminente viaggio, in macchina ed in nave alla volta di Palermo, a Palazzo Modìca Donà dalle Rose (palazzo Imperatore de Gaetani dei Principi di Bastiglia) dove inizierà una nuova avventura, sempre in seno alle attività della Fondazione. L’idea dell’esodo unisce la storia di ieri, oggi e domani trascendendo dalla storia dell’artista che ha rielaborato i temi cari alla Fondazione che da anni crea ponti culturali tra tutte le isole italiane, l’Europa, il bacino mediterraneo, l’Africa, l’Asia ed il continente americano. La parola esodo, nella ricerca artistica a cui è stato chiamato Leone, guarda non solo alla figura centrale dell’uomo soggetto per scelta o per costrizione a lasciare la terra in cui, diventando testimone e vettore vivente della sua cultura, del suo vissuto spazi temporale, ovunque si rechi ma anche alle ragioni ed al su intersecarsi con la natura, gli animali e l’ambiente circostante in cui è vissuto ed ora vive. La trilogia descritta nei manifesti dell’artista è un atto artistico con cui sintetizza le metafore della vita, tra il sacro ed il semplicemente umano, come la sagoma centrale della trilogia che si lascia trapassare dallo spazio e dal tempo al suo interno, accompagnata dalle due croci, crocevia di infinite vite. Exodologia non si riferisce solo allo studio dell’esodo in senso storico ma anche a quello emozionale, sociologico ed antropologico. La segmentazione dell’immagine rubata ad un testo scritto, in realtà è occasione di rinnovo del sapere e del suo rivivere tanto nel suo immaginario quanto nell’orizzonte del visitatore. Le sue opere emigrano ed immigrano in un contesto nuovo, rivivendo, oltre la memoria di chi vissuto questo pezzo di storia, riscoprendo l’antico sapere e le sue potenziali difformità.
Leone è nato in un’era in cui i libri, quelli cartacei, sembravano proprio non avere più una ragione d’essere e quindi, bruciati o dimenticati, venivano visti come la prova di una auspicata tendenza anti ecologica e allo stesso tempo certamente desueta a favore, di una più celere ed immediata nipote, ormai, dell’era digitale. Tra le mura di Palazzo Donà, nella sua antica biblioteca, tra le maglie della storia, Leone ha ritrovato parte dei dubbi che nel suo silenzioso e metodico errare erano solo in potenza, entusiasmandosi così di come la storia possa rivelare numerose coperte e sipari che con genio e maestria artistica lui può fare riemergere dalla polvere del passato.
Domande a brucia pelle di Chiara Modìca Donà dalle Rose
Leone cosa volevi fare da grande?- Da bambino volevo fare l’astronauta. Dove volevi andare? il più lontano possibile dalla terra o da casa tua – dalla terra – non hai paura di morire in mezzo all’universo?  – No ancora adesso se mi dicessero che potrei non far più ritorno partirei lo stesso .
Ma è una forma di incoscienza perché non avevi realizzato il fatto che puoi morire per mancanza di ossigeno oppure è curiosità? – Certo, no, per curiosità, per curiosità, sì…  Hai letto il piccolo principe?  – Sì – ah eh…
Quando hai deciso di fare l’artista? – A tredici anni inconsapevolmente. A venti sono riuscito a mettermi in gioco.   E perché inconsapevolmente? Cosa vuoi dire? – Perché a tredici anni ho iniziato a lavorare nello studio di un artista ed è stato tutto molto travolgente. Mi è subito piaciuto, ma non sapevo quale direzione, che poi la direzione…    Hai lavorato come aiutante? –  Sì, ho fatto proprio la bottega dell’arte, dai 13 ai 19. – in che città? – Milano
Questa tua ricerca attraverso i vecchi libri, vecchi testi, vecchi giornali, guarda solo l’aspetto figurativo delle foto che tu vedi o ti metti a leggere quello che è contenuto?
– Leggo sempre. è un po’ come camminare dentro a un grande museo, come quando vai al Louvre, c’è così tanta roba che ti cade addosso… quindi anche pur leggendo non sempre poi ricordo tutto, non ho una grande memoria. Però ormai sono 13 su 25 anni della mia vita che sfoglio, sfoglio, leggo, leggo… questo ha fatto sì che sviluppassi un fortissimo gusto critico, ma soprattutto un legame forte con i libri che esploro e che pur distruggendo sento di ridar loro una vita, quasi come se fossero delle entità vive. 
Se avessi cinquecento anni e quindi potresti leggere tutto, lo faresti? Nel momento in cui tu distruggi un giornale o un libro, lo fai, ti senti, la scelta è un gesto artistico o è casuale?  – Si. Ambo le cose. A volte è casuale, ma la casualità fa sempre parte di un processo che dura da tempo. Un quadro non è mai troppo distaccato dall’altro. fanno tutti parte di uno stesso universo, per ora, che è, diciamo, è la distruzione della linea temporale. Anche se molto iconografici, religiosi e sacri, i miei lavori sono figli della teoria della relatività. Il tempo non esiste, quindi io utilizzo le immagini a disposizione della storia dell’umanità per creare una nuova linea temporale, frammenti ove si mischiano mondi che non hanno niente a che vedere fra loro.
Ti definiresti un demiurgo? Quanti anni hai?  hai fatto parte dell’era dei ragazzi che leggevano i giornali? Sei riuscito ad arrivare a leggere i giornali? Il cartaceo lo leggevi?
Si. Ho 25 anni.  –  Sì. per poco.  – Solo grazie ai miei genitori perché ero bambino. –  – Sì. Uno dei ricordi più vividi legati al quotidiano che ho della mia infanzia è il giorno della morte di Gheddafi. Ho proprio questo ricordo impresso. La storia sappiamo che probabilmente era mistificata, questo magari… però quello è un ricordo.
Hai mai provato a leggere un giornale di tuo padre prima di lui? Ti era permesso?    – Sì… no, prima di lui no perché, quando io avevo la possibilità di toccare il giornale vuol dire che era già stato letto. 
Leggevi tutti gli articoli o aveva un impatto importante il titolo o l’immagine?   – Assolutamente; da bambino economia e politica proprio neanche le toccavo.  Ok. Quindi cronaca?   – Sì, cronaca internazionale.  
Se dovessimo definire il mondo in era dei giovani che sentivano la radio, giovani che guardavano la tv, che leggevano i giornali o che guardano il telefonino, in quale di queste civiltà ti senti di essere?  In quella del telefonino.  – Traghettato o pienamente dentro? – Pienamente dentro. – Ti sembra di aver perso qualcosa?  – Sì.  – Che cosa? – La curiosità. A livello generazionale. – Tu credi che esista una sinistra alla sinistra e una destra alla destra? – Si certo, anche se non credo in nessuna delle due. Non più almeno. – Sei mancino?  – No, destro.  – Il tuo pensiero quindi è destrorso?  – No, il mio pensiero…  – A livello di mano – Ah, il pensiero!  – Tu credi che il mondo sia fatto per le persone di destra o di sinistra? – Che sia fatto purtroppo per gli scaltri, e i furbi. – Alcune tue opere sono deliberatamente provocatorie. Tu vuoi provocare l’occhio degli altri oppure c’è un messaggio estremamente profondo e aulico? Cioè, è un modo tuo furbo di venderti o c’è qualcosa dietro? – A volte, come nel quadro su Luigi Mangione o quello su JD Vance, il gioco è quasi puramente provocatorio. Quando assisto alla nascita di una nuova icona, seppur molto irriverente, mi piace giocarci sopra.  In altri casi c’è tutto un altro discorso da fare, che è quello sull’indifferenza. Il dipinto ricorda il coinvolgimento dello spettatore al contemporaneo, alla nostra “linea” temporale. Non è possibile chiudere gli occhi. L’opera, che spesse volte rappresenta anche la mia personale rabbia, ti deve guardare dritto all’anima.  
E questo, per esempio, con le polaroid di Hitler e la donna nuda? Pensi che lo prenderebbe qualcuno, lo comprerebbe qualcuno, se lo metterebbe in camera?
Non penso, sia per la Donna Nuda che per le Polaroid di Hitler.  Anche se quell’Hitler lì nel gioco dell’opera ha perso il suo Hitler, non so come dire, Il suo Hitlerismo, non può veramente scindere da ciò; ed è anche sbeffeggiato dalla bellezza dell’emancipazione. Esatto. Della femmina. Però allo stesso tempo… Ariana. Ecco perché storci gli occhi guardandolo…
Nel tuo percorso artistico — o meglio, nel tuo esodo, visto che questa mostra si intitola Exodology — sembri esercitare un’arte del vagabondaggio. Esplori la storia attraverso libri, giornali, archivi, e magari scopri cose che credevi diverse, semplicemente leggendole con occhi nuovi. Nel tuo modo di operare alterni materiali e tecniche in modo imprevedibile: un giorno è cartone, un altro fotografie, poi fotocopie, dipinti, immagini digitali da computer o telefono… Insomma, sembri agire tra diversi strati della produzione umana, in modo quasi metafisico. In questo tuo vagare, senti di aver già attraversato delle fasi distinte — per esempio un periodo più politico, poi uno spirituale o religioso, poi magari uno legato alla musica, alla moda, o all’introspezione personale? Oppure senti di essere ancora nella tua “prima fase”, in un unico flusso che non si è ancora frammentato?
Allora, io, pur essendo molto giovane, credo di aver già attraversato tante fasi, avendo avuto la fortuna di iniziare a lavorare nel mondo dell’arte fin dai 13 anni. La prima è stata una fase di apprendimento, da assistente nel grado più basso, in uno studio artistico. A 19 anni, però, ero già arrivato al punto di curare personalmente la rifinitura finale di un quadro, prima che andasse in mostra. Avevo raggiunto una certa maturità, anche “pop”, diciamo, e giravo già l’Italia per lavoro. Quella maturità si è poi in parte azzerata con il mio primo vero esodo: l’arrivo a Venezia e il taglio dei ponti con Milano. A Milano avrei potuto continuare a lavorare negli studi di altri artisti — avevo già accumulato parecchia esperienza — ma volevo distaccarmi da quell’ambiente, dalla Pop Art, anche se mi aveva dato la possibilità di conoscere persone incredibili. A Venezia è iniziato un nuovo periodo, che io chiamo il periodo delle scoasse — è la mia parola preferita in veneziano. Per riallestire il mio studio ho cominciato a raccogliere di tutto: ferri vecchi, pezzi di legno, sedie, tavoli, scarti che i vecchi della città mi regalavano. E non solo usavo le scoasse nei materiali, ma anche la pittura stessa era una “scoassa”. Noi la chiamiamo così, scoassa. Quel momento per me è stato un nuovo inizio. La politica, però, è sempre stata presente in tutto il mio percorso. Il mio primo “vero” quadro, il numero uno di Leone Solia, antecedente al periodo veneziano, rappresentava un corteo, una protesta, era una sorta di Guernica in piccolo. Ovviamente non a livello stilistico, ma nell’intento.
Quindi forse i miei lavori fanno tutti parte di una grande fase politica. Ora mi trovo nel pieno del periodo sacro. E quanto ha influito la tua presenza in questo?
-Tanto. Per me vivere in questo palazzo è stato come chiudere un cerchio. Sono nato in via Paolo Sarpi, a Milano. Ora mi ritrovo nel palazzo di Leonardo Donà dalle Rose, a dipingere, e continuo un percorso non istituzionale, come quello degli artisti rinascimentali. Non ho mai frequentato accademie o canali ufficiali. Ho fatto la mia formazione in bottega, come si faceva nel Cinquecento, quando un artista affermato prendeva con sé i giovani e li metteva subito a lavorare. E questa residenza, da questo punto di vista, è speciale. A volte mi sento — senza voler fare paragoni — come un Raffaello che lavora per i Medici. È una cosa unica, come unico è stato l’inizio del mio percorso. Quindi direi che sì, non sono più in una prima fase: ogni passaggio, ogni città, ogni gesto ha segnato un’esplorazione diversa — ed è forse proprio questo il mio modo di vivere l’“Exodology”. Oggi sento di essere all’inizio di un nuovo periodo, una fase in cui sto lentamente abbandonando il collage, che mi ha accompagnato a lungo, per avvicinarmi a nuovi linguaggi, nuovi medium. C’è una voglia forte di scoprire, di rischiare, di imparare strumenti diversi. Non so ancora dove porterà questo slittamento, ma so che è un passaggio necessario, forse anche inevitabile. È l’esodo che continua — sempre un po’ più a fondo, sempre un po’ più lontano.
– Quando ti dicono che ricordi Mimmo Rotella, lo prendi come un complimento?
Certo, è un grande artista. Ma sinceramente non credo di ricordarlo davvero, almeno non nel senso profondo. Se dovessi scegliere un riferimento, mi sentirei molto più vicino a un futurista, a un Sironi, piuttosto che a Rotella. Appartengo a qualcosa di un po’ più antico, più strutturato anche nella visione. Rotella è stato un artista importante, ma profondamente pop. Il suo gesto era quello del décollage: prendeva manifesti dalla strada, li stratificava, poi li strappava per far emergere immagini, quasi come se scavasse nell’anima dell’opera. Io invece lavoro in modo opposto: non strappo, non tolgo, non distruggo. Ritaglio, scelgo, ricompongo. Prendo elementi visivi già esistenti e li metto in comunicazione tra loro. Nelle mie opere vedo un dialogo tra carta, foto, fotocopie; c’è una relazione costruita con attenzione e precisione. Per ora… Un’altra differenza tra me e Rotella, secondo me, è la rabbia. Io sento che c’è una furia, un’urgenza verso il contemporaneo che guida il mio lavoro. È una forza che mi spinge a creare. Rotella aveva il distacco elegante del pop. Io invece sento qualcosa di più ruvido, più coinvolto.
A proposito di tecnologia, cosa pensi dell’intelligenza artificiale, della robotica, persino degli umanoidi?
– Sono molto felice di quello che sta succedendo. È forse una scoperta che finirà nelle mani sbagliate – anzi, probabilmente è già successo – perché l’uomo ha spesso usato la tecnologia in modo distruttivo. Ma resta il fatto che stiamo assistendo a una rivoluzione paragonabile alla scoperta del fuoco. Se il 90% degli artisti oggi critica l’IA, o ne ha paura, io invece la vedo come uno strumento potentissimo. Come è stato il cinema per i fratelli Lumière, o la macchina fotografica a fine Ottocento. Quando è uscita ChatGPT in Italia mi sono persino messo in fila per provarla, e alla fine ho scritto un libro di duecento pagine con il suo aiuto. Per me è un mezzo che può dare moltissimo all’arte, non toglierle nulla. Viviamo in un’epoca in cui tutti possono creare. E sì, questo genera un affollamento enorme di opere, molte delle quali scadenti. Ma è giusto così: è il prezzo della libertà creativa. L’intelligenza artificiale aumenterà ancora questa possibilità: sempre più persone potranno esprimersi. Pochi faranno qualcosa di davvero bello, ma è buono che ci sia tanta produzione. E poi sembrava che le correnti artistiche fossero finite – dagli anni Ottanta in avanti, con il super-pop e un minestrone estetico dove si è visto tutto e il contrario di tutto – ora, finalmente, stiamo assistendo alla nascita di qualcosa di nuovo. Gli NFT sono durati poco, ed erano in larga parte una truffa. Ma adesso siamo ai primi passi di una vera nuova corrente artistica. È come essere davanti alla scalinata di un mondo ancora tutto da costruire, e io ne sono affascinato.
Pensi che questo processo avrà una fine? Una realizzazione definitiva?
– No. Mi sembra impossibile concepire una “realizzazione definitiva”, in qualsiasi ambito. Piuttosto credo che arriverà un nuovo e ulteriore Esodo… 
Download

Trinità atea Nel simbolismo della croce, l’intersezione dei due assi indica il centro del mondo, il punto d’incontro tra il cielo e la terra. Mircea Eliade In Nomine Patri et Filii et Spiritus Sancti La tripartizione è parte profondamente costituente della fede cristiana, basti pensare non tanto alla Trinità come concetto di tre elementi riassunti in uno ma, anche a livello narrativo, si può ricordare come tre fossero i doni che vennero portati dai Magi alla nascita di Cristo. C’è una sorta di reiterazione del numero Tre come simbolo profondo di connessione tra Uomo e Spirito, tra Uomo e Dio. Cardine essenziale della rappresentazione di questa simbologia è proprio la Croce, da essa ritengo si possano porre le basi per una riflessione in merito all’opera di Leone Solia. La Croce, nella sua essenza, incardina la duplice dimensionalità – di cui l’Uomo, Cristo, si fa terzo polo, ente incarnante questa dualità rendendola, ancora una volta, tripartizione – in cui l’asse orizzontale, là dove giacciono le mani esanimi di Gesù, ovvero la sua dimensione più umana, più vera, è simbolo dell’immanenza, della costante permanenza e attaccamento alla mortalità, all’unicità dell’esperire umano. Dall’altro lato, l’elemento verticale, la trascendenza, va dai piedi alla testa e su essa sovrasta l’inscrizione I.N.R.I.: l’Uomo non è solamente ciò che esperisce, ciò che vive, è di più, è corpo ma è anche spirito. What ever happened to sex, drugs and rock’n’roll? Now we just have AIDS, crack and techno. Laughing Colours – War on Drugs Cosa accade quando il corpo di Cristo scompare, quando quel simbolo di tensione tra Uomo e Dio si svuota dell’elemento centrale e di connessione? Analizzando il lavoro di Solia ci troviamo esattamente di fronte a questa dinamica: il sovvertimento del ruolo trinitario non più come ente governante, riordinante, demiurgico, Dio non c’è più, Dio è morto. La contemporaneità, nonostante il vilipendio al Sacro, non ha e non riesce ad abbandonare la dimensione ternaria, quasi fosse un apparato aprioristico del bisogno esistenziale. Esso trova riscontro – come si evince nella breve citazione di un ritornello di una canzone degli anni ’90 – in tutta una serie di corrispondenze che, pare, abbiano sostituito il Sacro con un altro Sacro. Pensiamoci per un secondo. Quando parliamo di Scienza, la nuova fede dell’ultimo secolo, non è possibile non scendere, sebbene accarezzandone unicamente la superficie, nel riconoscimento che anche lì, la sostanza primordiale di tutto, la terna sacra non cessa di esistere. L’atomo, simbolo ultimo della materia (se non scendiamo nel profondo della fisica quantistica), si trova anch’esso determinato da una trivalenza: elettrone, protone e neutrone. Cosa ci indica tutto questo? Ci indica semplicemente che il Tre è essenziale strutturalmente nello sviluppo della vita. Cosa accade dunque nel lavoro di Solia, in cui la Trinità ritorna ma si veste di ateismo? È forse un atto profanatorio? Forse sì o forse no. Riprendiamo per un secondo Giorgio Agamben in due estratti di grande valore: Profanare significa restituire al libero uso ciò che era stato separato nel regno del sacro. (da Profanazioni) Quando il Baal Schem, il fondatore dello chassidismo, doveva assolvere un compito difficile, andava in un certo posto nel bosco, accendeva un fuoco, diceva le preghiere e ciò che voleva si realizzava. Quando, una generazione dopo, il Maggid di Meseritsch si trovò di fronte allo stesso problema, si recò in quel posto nel bosco e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere” – e tutto avvenne secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Mosche Leib di Sassov si trovò nella stessa situazione, andò nel bosco e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, non sappiamo più dire le preghiere, ma conosciamo il posto nel bosco, e questo deve bastare”. E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione trascorse e Rabbi Israel di Rischin dovette anch’egli misurarsi con la stessa difficoltà, restò nel suo castello, si mise a sedere sulla sua sedia dorata e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le preghiere e non conosciamo nemmeno il posto nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E, ancora una volta, questo bastò. (da Il Fuoco e il Racconto) In primo luogo è bene notare, nel secondo estratto, come ancora una volta si presenti una tripartizione necessaria al rito: luogo, fuoco, preghiera; dall’altro lato è bene notare nella prima citazione, come il processo della profanazione non sia un atto che deliberatamente si infrange contro il sacro e lo annienta anzi, purifica, apre, sposta l’accento verso altre dinamiche possibili. Proprio qui sta la forza espressiva del lavoro di Solia, un esodo del senso, dal Sacro al Profano che però ritorna Sacro. Ne sono esempio calzante proprio le parole dell’artista: L’opera, che spesse volte rappresenta anche la mia personale rabbia, ti deve guardare dritto all’anima. Ecco che in queste poche ma profondissime e densissime parole, si esplicita il ribaltamento messo in gioco da Solia. Se la Trinità, il Sacro, erano elementi di tensione visiva verso cui rivolgerci, verso cui pregare – ricordiamo i russi che dedicavano alle icone sacre l’angolo bello della casa, o le icone votive che venivano portate in viaggio come simboli guida e di protezione -, ora è la Trinità stessa a guardare noi, a sconvolgerci, a spingerci, nel campo agonico della vita, a non fermarci di fronte a quanto accade. Forse, nel modo più onesto possibile, Solia ci ricorda – anche attraverso i suoi collage – che noi siamo parte di una stratificazione della storia onnipresente nel nostro presente. Non c’è distanza ma c’è sovrapposizione. E allora, come sosteneva Debord ricordandoci di riappropriarci del nostro presente storico, l’opera di Solia ci investe (quasi fosse lui stesso la Trinità) a non rimanere indifferenti, non diventare ignavi del tramonto del senso che intorno a noi si dispiega. Forse, davvero, nell’ateismo che Solia vuole rappresentare, sta la più sacra delle forme di permanenza e resilienza. Forse qui, davvero, risuona il canto gramsciano: Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. (da La città futura) La Trinità atea di Solia, in questo suo esodo del senso è allora promessa di azione e di salvezza. Come Dio si è fatto carne, oggi è l’uomo stesso a doversi fare Dio per redimere e salvare, per agire e cambiare.

Fabio Scrivanti

T

Leave a comment